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La Vera Vite

Spirito Santo

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vieni...

Corpus Domini

Corpus Domini

Nel Corpo e nel Sangue di Gesù

Ciascun uomo possa "sentire e gustare" la presenza di Gesù e Maria, SS. Madre della Pentecoste, nella propria vita, in ogni attimo della propria giornata.



Nello Splendore della Resurrezione del Signore l'uomo trovi la sua vera dimensione e riesca ad esprimerla con Amore e Carità. Un abbraccio Michy


Maria SS. di Montevergine

Maria SS. di Montevergine
Maria SS. di Montevergine

Ti seguitò Signore - Mons.Mario Frisina

venerdì 30 settembre 2011

Venerdì della XXVI Settimana del Tempo Ordinario - San Pio da Pietrelcina

c 10,13-16L)
Chi disprezza me, disprezza colui che mi ha mandato.
+ Dal Vangelo secondo Luca

In quel tempo, Gesù disse:
«Guai a te, Corazìn, guai a te, Betsàida! Perché, se a Tiro e a Sidòne fossero avvenuti i prodigi che avvennero in mezzo a voi, già da tempo, vestite di sacco e cosparse di cenere, si sarebbero convertite. Ebbene, nel giudizio, Tiro e Sidòne saranno trattate meno duramente di voi.
E tu, Cafàrnao, sarai forse innalzata fino al cielo? Fino agli inferi precipiterai!
Chi ascolta voi ascolta me, chi disprezza voi disprezza me. E chi disprezza me, disprezza colui che mi ha mandato».Lc 10,13-16

Commento
Ringraziamo Dio per il grande dono della Scrittura: è un dono del suo amore, un dono antico e sempre nuovo che dobbiamo sfruttare nella fede.
Nel Vangelo Gesù ci dice appunto che il nostro tesoro è contemporaneamente antico e nuovo. E ogni epoca è invitata a discendere in questa miniera inesauribile per trovare nuove ricchezze, e le trova davvero.
Il modo attuale di studiare la Scrittura non assomiglia a quello dei secoli passati: vi scopriamo aspetti nuovi, che ci aiutano ad apprezzarne meglio la varietà e la ricchezza. Così si rinnova continuamente il gusto e l'interesse per lo studio della Bibbia.
Sappiamo che la Scrittura si studia bene soltanto nella fede. "Le Sacre Scritture scrive Paolo a Timoteo possono istruirti per la salvezza, che si ottiene per mezzo della fede in Cristo Gesù". Lo studio della Scrittura è fatto per mezzo della fede, che lo guida. Per aver fede bisogna prima capire un po' la Scrittura, perché se non si capisce niente dell'annuncio di salvezza non è possibile aderirvi, quindi per arrivare a credere è necessario fare un certo lavoro di intelligenza, un certo studio. Ma d'altra parte per approfondire la Scrittura è necessaria la fede: credere per, comprendere.
Se qualcuno ha il senso delle cose spirituali capisce profondamente la Bibbia anche se non ha cultura, perché la fede illumina gli occhi del suo cuore e questa illuminazione è più preziosa di tutti i mezzi della scienza, che possono far luce su aspetti secondari, ma non raggiungono il centro, che è il "proprio" della fede.
Non bisogna disprezzare lo studio faticoso degli scienziati, perché i loro sforzi sono necessari per far penetrare la fede in tutti i settori della vita e di ogni epoca. Ma Dio ha rivelato i tesori della Scrittura non soltanto agli intelligenti, ma anche a chi è meno dotato, mediante la fede, luce divina.
Siamo dunque riconoscenti al Signore per questo tesoro che tutti noi utilizziamo e aiutiamo ad approfondirlo insieme agli studiosi, perché la scienza aiuta a comprendere le Scritture, ma ancor più aiuta la santità.


giovedì 29 settembre 2011

Giovedì della XXVI Settimana del Tempo Ordinario - SANTI ARCANGELI MICHELE, GABRIELE E RAFFAELE



Vedrete il cielo aperto e gli angeli di Dio salire e scendere sopra il Figlio dell’uomo.

In quel tempo, Gesù, visto Natanaèle che gli veniva incontro, disse di lui: «Ecco davvero un Israelita in cui non c’è falsità». Natanaèle gli domandò: «Come mi conosci?». Gli rispose Gesù: «Prima che Filippo ti chiamasse, io ti ho visto quando eri sotto l’albero di fichi». Gli replicò Natanaèle: «Rabbì, tu sei il Figlio di Dio, tu sei il re d’Israele!». Gli rispose Gesù: «Perché ti ho detto che ti avevo visto sotto l’albero di fichi, tu credi? Vedrai cose più grandi di queste!».
Poi gli disse: «In verità, in verità io vi dico: vedrete il cielo aperto e gli angeli di Dio salire e scendere sopra il Figlio dell’uomo». Gv 1,47-51

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A te cantiamo , Signore, davanti ai tuoi angeli.

A te cantiamo , Signore, davanti ai tuoi angeli. E noi, in questa festa dei santi Arcangeli vogliamo fare proprio quel che fanno le schiere angeliche, le schiere celesti. Vogliamo dare gloria a Lui, gloria a Dio. Nella liturgia gli angeli vengono chiamati cooperatori, cooperatori del disegno di salvezza, sono al servizio di Dio e del Figlio dell’uomo, di Cristo.
Non sappiamo molto degli angeli, anche se la Bibbia spesso ci presenta questi amici di Dio. Daniele nella prima lettura parla degli angeli in forma misteriosa. Nella profezia sul Figlio d’uomo Daniele dice: «Un fiume di fuoco scendeva dinanzi a Lui, mille migliaia lo servivano e dieci mila miriadi lo assistevano». Il profeta non nomina gli angeli, parla di fuoco, parla di miriadi, parla veramente con un linguaggio misterioso… Noi spesso rappresentiamo gli angeli come uomini, uomini dal viso dolce, soave…. Nella Scrittura invece loro appaiono come esseri terribili, esseri che incutono timore, perché sono la manifestazione della Potenza di Dio, della Santità di Dio. Dobbiamo però notare una cosa importante, una cosa che spesso ci sfugge. Abbiamo parlato degli Angeli nella profezia di Daniele. Ma se la rileggiamo bene, ci accorgiamo che in quel brano, non sono gli Angeli gli esseri più importanti… Dopo la Epifania di Dio, la manifestazione di Dio vediamo «uno, simile ad un figlio d’uomo». Ed è proprio lui e non gli Angeli ad essere introdotto fino al trono di Dio. È a lui che il Vegliardo «da’ il potere, la gloria e il regno», è «a lui che tutti i popoli serviranno». Una cosa simile osserviamo anche nel brano evangelico di oggi… «Vedrete i cieli aperti e gli angeli di Dio salire a scendere sul Figlio d’uomo». Anche qui gli angeli sono al servizio del Figlio d’uomo, di Gesù Cristo. Vediamo allora come la liturgia purifica il nostro culto, il nostro servizio. La nostra lode, la nostra adorazione non è rivolta ai santi, nemmeno quando si tratta degli angeli o arcangeli. La nostra lode e il nostro culto va indirizzato solo a Dio e al Figlio di Dio. Gli angeli sono solo servitori suoi che Dio, nella sua immensa bontà, mette anche al nostro servizio.
Che cos’è che ci insegna questa festa di oggi, che cos’è che impariamo oggi dai santi Arcangeli? San Michele ci insegna il «Chi se non Dio!»… Come far significare nella/colla nostra vita che solo Dio importa, che solo Lui è il Signore della nostra vita, a Lui solo vogliamo dar la nostra gloria. San Gabriele, il grande annunciatore della volontà di Dio, del progetto di Dio. Egli ci dice come riconoscere il progetto divino nella nostra vita, come accettarlo… San Raffaele, colui che guida, colui che accompagna, conduce il mondo, noi verso il Signore…
Chiediamo al Signore perché ci faccia veramente comprendere la sua santità, maestà, potenza perché possiamo dargli gloria, reverenza in mezzo ai suoi Angeli.
Monaci Benedettini Silvestrini

mercoledì 28 settembre 2011

Mercoledì della XXVI settimana del Tempo Ordinario

Ti seguirò dovunque tu vada.
In quel tempo, mentre camminavano per la strada, un tale disse a Gesù: «Ti seguirò dovunque tu vada». E Gesù gli rispose: «Le volpi hanno le loro tane e gli uccelli del cielo i loro nidi, ma il Figlio dell’uomo non ha dove posare il capo».
A un altro disse: «Seguimi». E costui rispose: «Signore, permettimi di andare prima a seppellire mio padre». Gli replicò: «Lascia che i morti seppelliscano i loro morti; tu invece va’ e annuncia il regno di Dio».
Un altro disse: «Ti seguirò, Signore; prima però lascia che io mi congedi da quelli di casa mia». Ma Gesù gli rispose: «Nessuno che mette mano all’aratro e poi si volge indietro è adatto per il regno di Dio». Lc 9,57-62

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C'è un contrasto molto forte fra la prima lettura e il Vangelo. Le esigenze di Gesù sono radicali: "Seguimi... Lascia che i morti seppelliscano i loro morti... Nessuno che ha messo mano all'aratro e poi si volge indietro è adatto per il regno di Dio". Nella prima lettura la pietà filiale si esprime in modo commovente:
Neemia è triste perché la città dove sono i sepolcri dei suoi padri è in rovina e vuole ricostruirla, proprio in funzione di quelle care tombe.
Quale trasformazione di sentimenti opera la presenza di Gesù nella vita dell'uomo! Ormai, come leggiamo nella seconda lettera ai Corinzi, siamo nel tempo in cui "quelli che vivono non devono più vivere per se stessi, ma per colui che è morto ed è risuscitato per loro... Ormai noi non conosciamo più nessuno secondo la carne... Se uno è in Cristo, è una creatura nuova; le cose vecchie sono passate, ecco, ne sono nate di nuove".
Il distacco che Gesù chiede a chi lo segue è in vista di questa vita nuova, della nuova creazione che egli ha operato con la sua morte e risurrezione. Ormai siamo "viventi in Dio, in Cristo Gesù".
Chiediamo a lui il dono di vivere davvero da risorti, pieni di slancio per la vita celeste che ci è stata già data e che deve crescere in noi fino a quando la possederemo per sempre. commento "La Chiesa"

martedì 27 settembre 2011

Martedì della XXVI Settimana del Tempo Ordinario - San Vincenzo de' Paoli

Prese la ferma decisione di mettersi in cammino verso Gerusalemme.
Mentre stavano compiendosi i giorni in cui sarebbe stato elevato in alto, Gesù prese la ferma decisione di mettersi in cammino verso Gerusalemme e mandò messaggeri davanti a sé.Questi si incamminarono ed entrarono in un villaggio di Samaritani per preparargli l’ingresso. Ma essi non vollero riceverlo, perché era chiaramente in cammino verso Gerusalemme.
Quando videro ciò, i discepoli Giacomo e Giovanni dissero: «Signore, vuoi che diciamo che scenda un fuoco dal cielo e li consumi?». Si voltò e li rimproverò. E si misero in cammino verso un altro villaggio.

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Cattiva accoglienza di un villaggio di Samaria.
Gesù sta per iniziare il suo ultimo viaggio verso Gerusalemme. La meta ultima che l’attende è però il monte calvario dove consumerà il suo sacrificio. Passando di villeggio in villaggio egli continua la sua missione di annunciare il Regno di Dio e di invitare tutti alla conversione. Lo precedono i suoi discepoli, inviati appositamente per preparare gli abitanti alla sua venuta. C’è un rifiuto e segue l’ira e l’indignazione degli Apostoli. I più zelanti invocano un immediato castigo dal cielo: «Signore, vuoi che diciamo che scenda un fuoco dal cielo e li consumi?». Gesù li rimprovera. È falso il loro zelo. La vendetta non ci appartiene. Lo stesso Dio si autodefinisce «Lento all’ira e grande nell’amore». La stessa persona di Gesù incarna il perdono e la misericordia. Quando in noi esplode l’ira, è ancora quel maledetto orgoglio che interviene minaccioso. A pensare che se il nostro Dio non fosse il Dio della misericordia e del perdono, tutti saremmo periti miseramente dopo il primo peccato. Gli Apostoli erano testimoni oculari degli atteggiamenti che Gesù praticava nei confronti dei peccatori: avevano assistito alla conversione di Zaccheo, di Levi il pubblicano. Avevano visto il loro maestro lasciarsi toccare non solo dai lebbrosi, ma perfino da una prostituta. Alcuni si scandalizzavano di ciò, ma i più ne restavano edificati. Dovranno però verificarsi alcuni eventi decisivi perché tutto possa apparire chiaro: la croce, la risurrezione e la pentecoste. Occorre lo Spirito Santo per comprendere al meglio che il Signore e «il mio Dio, il Dio della mia misericordia», come canta il Salmista.

lunedì 26 settembre 2011

Lunedì della XXVI Settimana del Tempo Ordinario

 Chi è il più piccolo fra tutti voi, questi è grande.
In quel tempo, nacque una discussione tra i discepoli, chi di loro fosse più grande.
Allora Gesù, conoscendo il pensiero del loro cuore, prese un bambino, se lo mise vicino e disse loro: «Chi accoglierà questo bambino nel mio nome, accoglie me; e chi accoglie me, accoglie colui che mi ha mandato. Chi infatti è il più piccolo fra tutti voi, questi è grande».
Giovanni prese la parola dicendo: «Maestro, abbiamo visto uno che scacciava demòni nel tuo nome e glielo abbiamo impedito, perché non ti segue insieme con noi». Ma Gesù gli rispose: «Non lo impedite, perché chi non è contro di voi, è per voi».

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Chi è il più grande?
La competizione, l’emulazione, spinte positive che spronano al bene, al sempre meglio, spesso degenera in lotta e sfida serrata. È l’orgoglio dell’uomo, radice di ogni peccato, che fa desiderare i primi posti. La gerarchia la si fa secondo criteri umani per cui i primi sulla terra potrebbero essere gli ultimi nei cieli. Il Signore infatti esalta gli umili, rimanda i ricchi a mani vuote e disperde i superbi. Gli stessi apostoli e discepoli di Gesù non sono esenti dalla tentazione di mania di grandezza. Giacomo e Giovanni si fanno raccomandare dalla loro madre per sedere una a destra e uno a sinistra nell’ipotetico regno da fondare dal grande Maestro. Non erano ancora in grado di comprendere che la richiesta era rivolta al Verbo incarnato di cui poi S. Paolo dirà in un memorabile inno: «(Egli) pur essendo di natura divina, non considerò un tesoro geloso la sua uguaglianza con Dio; ma spogliò se stesso, assumendo la condizione di servo e divenendo simile agli uomini; apparso in forma umana, umiliò se stesso facendosi obbediente fino alla morte e alla morte di croce. Per questo Dio l’ha esaltato e gli ha dato il nome che è al di sopra di ogni altro nome; perché nel nome di Gesù ogni ginocchio si pieghi nei cieli, sulla terra e sotto terra; e ogni lingua proclami che Gesù Cristo è il Signore, a gloria di Dio Padre». Per convincersi di ciò bisogna accogliere ed assimilarsi nello spirito all’innocenza e alla semplicità dei bambini. Bisogno essere capaci di recuperare e praticare le virtù della povertà e dell’umiltà della Vergine Madre, che canta: «Il mio spirito esulta in Dio, mio salvatore, perché ha guardato l’umiltà della sua serva. D’ora in poi tutte le generazioni mi chiameranno beata». Sempre la virtù dell’umiltà che apre poi alle più ampie e giuste dimensioni della fede: la forza di Dio non la si può racchiudere negli angusti spazi del nostro freddo calcolo umano: che agisce in buona fede e con rettitudine di coscienza non abuserà mai del nome di Cristo. Monaci Benedettini Silvestrini

domenica 25 settembre 2011

XXVI Domenica del Tempo Ordinario (anno A)

 Pentitosi andò. I pubblicani e le prostitute vi passano avanti nel regno di Dio.

In quel tempo, Gesù disse ai capi dei sacerdoti e agli anziani del popolo: «Che ve ne pare? Un uomo aveva due figli. Si rivolse al primo e disse: “Figlio, oggi va’ a lavorare nella vigna”. Ed egli rispose: “Non ne ho voglia”. Ma poi si pentì e vi andò. Si rivolse al secondo e disse lo stesso. Ed egli rispose: “Sì, signore”. Ma non vi andò. Chi dei due ha compiuto la volontà del padre?». Risposero: «Il primo».
E Gesù disse loro: «In verità io vi dico: i pubblicani e le prostitute vi passano avanti nel regno di Dio. Giovanni infatti venne a voi sulla via della giustizia, e non gli avete creduto; i pubblicani e le prostitute invece gli hanno creduto. Voi, al contrario, avete visto queste cose, ma poi non vi siete nemmeno pentiti così da credergli».Mt 21,28-32

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Gesù ha sempre fiducia in ogni uomo

Un uomo aveva due figli...
In quei due figli è rappresentato ognuno di noi, con in sé un cuore diviso, un cuore che dice «sì» e uno che dice «no», che dice e poi si contraddice: infatti non compio il bene che voglio, ma il male che non voglio (Rm 7,15.19 ).
Il primo figlio che dice «no», è un ribelle; il secondo che dice «sì» e non fa', è un servile. Non si illude Gesù. Conosce bene come siamo fatti: non esiste un terzo figlio ideale, che vive la perfetta coerenza tra il dire e il fare. I due fratelli, pur così diversi, hanno qualcosa in comune: la stessa idea del padre come di un estraneo che impartisce ordini; la stessa idea della vigna come di una cosa che non li riguarda.
Qualcosa però viene a disarmare il rifiuto del figlio che ha detto no: «si pentì». Pentirsi significa «cambiare mentalità, cambiare il modo di vedere», di vedere il padre e la vigna. Il padre non è più un padrone da obbedire o da ingannare, ma il capo famiglia che mi chiama in una vigna che è anche mia, per una vendemmia abbondante, per un vino di festa per tutta la casa. E la fatica diventa piena di speranza.
Chi dei due ha fatto la volontà del padre? Questa volontà del padre, da capire bene, è forse di essere obbedito? No, è ben di più: avere figli che collaborino, come parte viva, alla gioia della casa, alla fecondità della terra.
La morale evangelica non è prima di tutto la morale dell'obbedienza, ma dei frutti buoni: «dai loro frutti li riconoscerete» (Mt 7, 16). Frutti di bontà, libertà, gioia, amicizia, limpido cuore, perdono.
L'alternativa di fondo è tra un'esistenza sterile e una che invece trasforma una porzione di deserto in vigna, e la propria famiglia in un frammento del sogno di Dio. Anche se nessuno se ne accorge, anche lavando in silenzio i piedi di coloro che ci sono affidati, nel segreto della propria casa. Se agisci così fai vivere te stesso, dice il profeta Ezechiele nella prima lettura, sei tu il primo che ne riceve vantaggio.
Gesù prosegue con una delle sue parole più dure e consolanti: i pubblicani e le prostitute vi passano avanti nel regno di Dio. Dura la frase, perché si rivolge a noi che a parole diciamo «sì», ci diciamo credenti, ma siamo sterili di opere buone. Cristiani di facciata o di sostanza?
Ma consolante, perché in Dio non c'è ombra di condanna, solo la promessa di una vita rinnovata per tutti. Dio ha fiducia sempre, in ogni uomo; ha fiducia nelle prostitute e ha fiducia in noi, nonostante i nostri errori e i nostri ritardi. Crede in noi, sempre! Allora posso cominciare la mia conversione. Dio non è un dovere: è amore e libertà. E un sogno di grappoli saporosi per il futuro del mondo. p. Emes Ronchi

sabato 24 settembre 2011

Sabato della XXV settimana del Tempo Ordinario

 Il Figlio dell’uomo sta per essere consegnato. Avevano timore di interrogarlo su questo argomento.
In quel giorno, mentre tutti erano ammirati di tutte le cose che faceva, Gesù disse ai suoi discepoli: «Mettetevi bene in mente queste parole: il Figlio dell’uomo sta per essere consegnato nelle mani degli uomini».
Essi però non capivano queste parole: restavano per loro così misteriose che non ne coglievano il senso, e avevano timore di interrogarlo su questo argomento. Lc 9,43-45

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Non comprendevano ed avevano paura.
La morte, anche quando riusciamo a guardarla con l’occhio benevolo della fede, conserva sempre il suo velo nero di mistero. Resta sempre un ampio margine inscrutabile, inaccessibile. Mentre evidentemente scandisce inesorabile, la fine della nostra vita nel tempo, non ci svela mai appieno la novità che ci attende. I vincoli che ci legano alle umane realtà e il timore del giudizio divino accrescono ulteriormente in noi la paura. Gli apostoli, da anni alla sequela di Cristo, avevano goduto della sua presenza, dei suoi messaggi di salvezza; erano testimoni oculari di prodigi portentosi. Il loro maestro, non solo guariva ogni sorta d’infermità, ma risuscitava i morti. Sentivano già la certezza di poter attribuire al loro Signore il titolo di vincitore della morte e di autore della vita. Per questo Gesù nel dare l’annuncio della sua ormai prossima dipartita scandisce bene il suo annuncio: «Mettetevi bene in mente queste parole: Il Figlio dell’uomo sta per esser consegnato in mano degli uomini». È l’evidente dichiarazione di una resa totale. Essere consegnato significa mettersi in balia dei nemici e subire e sottostare alle loro violenze. Le loro menti, come le nostre, non erano disponibili a comprendere una tale eventualità. Avrebbe significato per loro, che tanta fiducia avevano riposto nel loro maestro, veder stroncata ogni speranza, delusa ogni attesa. È la delusione che ci prende quando riponiamo in Dio infondate speranze di umane grandezze e di totale protezione da ogni coinvolgimento nella sofferenza e nella croce di Cristo. È la stessa paura che attanaglia gli apostoli e li ammutolisce rendendoli incapaci di rivolgere domande su un argomento che temevano fosse loro svelato ulteriormente in tutta la sua cruda realtà. Noi siamo più fortunati degli apostoli; sorretti dalla fede ogni giorno annunciamo la sua morte e risurrezione nell’attesa della sua venuta. La paura della morte i santi l’hanno vinta vivendo eroicamente la speranza cristiana e risorgendo ogni giorno con Cristo, vivificati dalla sua infinita misericordia. Quella della sofferenza l’hanno testimoniata in modo mirabile la schiera dei martiri, che si gloriavano di essere fatti degni di partecipare alle sofferenze di Cristo, nella certezza di risorgere così con lui nella gloria.

Monaci Benedettini Silvestrini

venerdì 23 settembre 2011

Venerdì della XXV Settimana del Tempo Ordinario - San Pio da Pietrelcina


Tu sei il Cristo di Dio. Il Figlio dell’uomo deve soffrire molto.

Un giorno Gesù si trovava in un luogo solitario a pregare. I discepoli erano con lui ed egli pose loro questa domanda: «Le folle, chi dicono che io sia?». Essi risposero: «Giovanni il Battista; altri dicono Elìa; altri uno degli antichi profeti che è risorto».
Allora domandò loro: «Ma voi, chi dite che io sia?». Pietro rispose: «Il Cristo di Dio».
Egli ordinò loro severamente di non riferirlo ad alcuno. «Il Figlio dell’uomo – disse – deve soffrire molto, essere rifiutato dagli anziani, dai capi dei sacerdoti e dagli scribi, venire ucciso e risorgere il terzo giorno». Lc 9,18-22

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Chi sono Io?
Voci diverse e contrastanti parlano di Gesù: la voce stonata di Erode, le dicerie e le chiacchiere della gente, le false insinuazioni degli scribi e dei farisei, nemici dichiarati del Cristo. In un momento di intimità e di preghiera, in un luogo appartato, lontano dalle voci e dai rumori del mondi, lo stesso Signore rivolge ai suoi la domanda: “Chi sono Io secondo la gente?” Egli aveva detto loro: “A voi è dato di conoscere i misteri del regno dei cieli” (Mt 13,11), si attende perciò una risposta diversa, sicura e difatti l’ottiene per bocca di Pietro, che prendendo la parola risponde: “Il Cristo di Dio”. Gesù a sua volta dirà: “Beato te, Simone figlio di Giona, perché né la carne né il sangue te l’hanno rivelato, ma il Padre mio che sta nei cieli”. Comprendere la piena verità di Cristo non è frutto del sangue e della carne, ma dono di Dio mediante la fede. tale dono dovremmo chiedere incessantemente anche per noi.

Monaci Benenedettini Silvestrini

giovedì 22 settembre 2011

Giovedì della XXV Settimana del Tempo Ordinario -

Giovanni, l’ho fatto decapitare io; chi è dunque costui, del quale sento dire queste cose?
In quel tempo, il tetràrca Erode sentì parlare di tutti questi avvenimenti e non sapeva che cosa pensare, perché alcuni dicevano: «Giovanni è risorto dai morti», altri: «È apparso Elìa», e altri ancora: «È risorto uno degli antichi profeti».
Ma Erode diceva: «Giovanni, l’ho fatto decapitare io; chi è dunque costui, del quale sento dire queste cose?». E cercava di vederlo.

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Sentire senza comprendere.




Il Re Erode ha sentito parlare di Cristo, della sua dottrina nuova, delle sue opere, dei segni e prodigi che compie, ma tutto ciò ha generato in lui solo una divertita curiosità. Non è sorretto dalla fede e di conseguenza riduce tutto a dimensioni e ragionamenti umani. E’ incapace di comprendere la chiamata divina, egli vorrebbe solo essere testimone di uno di quei miracoli dei quali tanto si parla. Il tiranno diventa la figura di tutti coloro che vorrebbero “vedere” Cristo, fidandosi della sola intelligenza, ignari che è impossibile all’uomo entrare nelle verità divine, senza il sostegno della fede e della grazia. Quanti ancora oggi vorrebbero “capire” Dio, ridurlo alle proprie dimensioni, pretendendo di darGli suggerimenti e direttive! Il salmista saggiamente ammonisce: “Nella tua luce, Signore, vediamo la luce” (Sal 36,10).

mercoledì 21 settembre 2011

Mercoledì della XXV settimana del Tempo Ordinario - S. Matteo

Non sono venuto a chiamare i giusti, ma i peccatori.
In quel tempo, mentre andava via, Gesù, vide un uomo, chiamato Matteo, seduto al banco delle imposte, e gli disse: «Seguimi». Ed egli si alzò e lo seguì.
Mentre sedeva a tavola nella casa, sopraggiunsero molti pubblicani e peccatori e se ne stavano a tavola con Gesù e con i suoi discepoli. Vedendo ciò, i farisei dicevano ai suoi discepoli: «Come mai il vostro maestro mangia insieme ai pubblicani e ai peccatori?».
Udito questo, disse: «Non sono i sani che hanno bisogno del medico, ma i malati. Andate a imparare che cosa vuol dire: “Misericordia io voglio e non sacrifici”. Io non sono venuto infatti a chiamare i giusti, ma i peccatori». Mt 9,9-13

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Si tratta di un convertito, di un uomo, prima seduto comodamente al banco delle imposte, poi Gesù che passa, il suo sguardo che si posa su di lui e un invito categorico: «Seguimi!». La risposta di Matteo e immediata: «ed egli si alzò e lo seguì». Viene da pensare: quanti tentennamenti da parte dei chiamati di oggi! Matteo non esita, non perché non ne abbia motivi, ma solo perché si fida di chi lo ha chiamato. Certamente non sarà stato facile per lui abbandonare quel banco e tutte le sue finanze. Evidentemente il nuovo apostolo ha un idea chiara su Gesù e ha intuito quale ricchezza potrà trovare nel seguirlo. Infatti appronta un lauto banchetto in onore dell’ospite divino per celebrare quell’incontro, quella chiamata, quella risposta e quella grazia di misericordia e di perdono che riceve da Gesù. Il Signore ancora una volta affronta il rischio dell’incomprensione e dell’accusa da parte degli scribi e dei farisei perché mangia con i pubblicani e con i peccatori. Nella loro grettezza e miopìa non possono comprendere il valore di un pentimento, di una conversione, di un perdono e di un mandato per una nuova missione e una nuova vita, quella che sarà da quel giorno il programma nuovo dell’esistenza di Matteo. La conclusione finale di questa bella storia è nell’annuncio solenne di una missione, di un modo eterno dell’agire di Dio e dello stesso Cristo: «Non sono i sani che hanno bisogno del medico, ma i malati» e ancora: «Non sono venuto a chiamare i giusti, ma i peccatori». È consolante, vero?

Monaci Benedettini Silvestrini                         

martedì 20 settembre 2011

Martedì della XXV Settimana del Tempo Ordinario - Santi Andrea Kim Taegon e compagni


Mia madre e miei fratelli sono coloro che ascoltano la parola di Dio e la mettono in pratica.
In quel tempo, andarono da Gesù la madre e i suoi fratelli, ma non potevano avvicinarlo a causa della folla.
Gli fecero sapere: «Tua madre e i tuoi fratelli stanno fuori e desiderano vederti».
Ma egli rispose loro: «Mia madre e miei fratelli sono questi: coloro che ascoltano la parola di Dio e la mettono in pratica».Lc 8,19-21

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La prima lettura di oggi parla della «casa di Dio», la seconda, il Vangelo, della famiglia di Gesù. E’ facile vedere il rapporto poiché nella Scrittura la parola «casa» può significare sia un edificio sia una famiglia. Per esempio quando la Bibbia parla della «Casa di Davide» può significare la sua abitazione, ma più spesso si tratta della famiglia, della stirpe di Davide. Chi ascolta le mie parole è per me fratello e madre… Ecco, se noi ascoltiamo la Parola di Dio e la mettiamo in pratica, diventiamo suoi fratelli, anzi sua madre – formiamo cioè la sua famiglia, siamo la «casa di Dio» siamo cioè nello stesso momento sua famiglia e suo tempio, cioè luogo dove lui abita. Si realizzano così le profezie di cui abbiamo letto nella prima lettura che Dio ha voluto abitare con gli uomini, non solo in mezzo a loro ma in loro, dentro di loro, per unirli tutti in un’alleanza che fa di essi un unico edificio, un’unica famiglia, e dirittura un unico corpo, il Corpo di Cristo - Monaci Benedettini Silvestrini

lunedì 19 settembre 2011

Lunedì della XXV Settimana del Tempo Ordinario

 La lampada si pone su un candelabro, perché chi entra veda la luce.

In quel tempo, Gesù disse alla folla:
«Nessuno accende una lampada e la copre con un vaso o la mette sotto un letto, ma la pone su un candelabro, perché chi entra veda la luce.
Non c’è nulla di segreto che non sia manifestato, nulla di nascosto che non sia conosciuto e venga in piena luce.
Fate attenzione dunque a come ascoltate; perché a chi ha, sarà dato, ma a chi non ha, sarà tolto anche ciò che crede di avere». Lc 8,16-18

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Nessuno accende una lampada e la copre con un vaso


Gesù vuole i suoi discepoli saggi, intelligenti, capaci di grande discernimento, aperti alla più grande verità. Li vuole con uno spirito di sapienza vivo, in tutto simile a ciò che la Scrittura Antica dice della sapienza: "La sapienza è un tesoro inesauribile per gli uomini; chi lo possiede ottiene l'amicizia con Dio. Ho conosciuto tutte le cose nascoste e quelle manifeste, perché mi ha istruito la sapienza, artefice di tutte le cose. In lei c'è uno spirito intelligente, santo, unico, molteplice, sottile, agile, penetrante, senza macchia, schietto, inoffensivo, amante del bene, pronto, libero, benefico, amico dell'uomo, stabile, sicuro, tranquillo, che può tutto e tutto controlla, che penetra attraverso tutti gli spiriti intelligenti, puri, anche i più sottili. La sapienza è più veloce di qualsiasi movimento, per la sua purezza si diffonde e penetra in ogni cosa. È effluvio della potenza di Dio, emanazione genuina della gloria dell'Onnipotente; per questo nulla di contaminato penetra in essa. È riflesso della luce perenne, uno specchio senza macchia dell'attività di Dio e immagine della sua bontà. Sebbene unica, può tutto; pur rimanendo in se stessa, tutto rinnova e attraverso i secoli, passando nelle anime sante, prepara amici di Dio e profeti. Dio infatti non ama se non chi vive con la sapienza. Ella in realtà è più radiosa del sole e supera ogni costellazione, paragonata alla luce risulta più luminosa; a questa, infatti, succede la notte, ma la malvagità non prevale sulla sapienza" (Cfr Sap 7,13-30). È proprio della sapienza conoscere il fine delle cose e le modalità per la loro giusta realizzazione. Invece lo stolto non conosce né fine e né modalità e per questo consuma la sua vita in una esistenza chiusa in se stessa, senza alcuna apertura né alla vera trascendenza né verso i fratelli.
Il discepolo di Gesù è invece persona che deve arricchire gli altri offrendo loro il dono della sua scienza, sapienza, intelligenza, luce con le quali il Signore lo ha arricchito. È proprio della sapienza donarsi così come è proprio della luce illuminare. Il sapiente che non rende sapiente il mondo è uno stolto, un insipido, un innaturale. La luce che non illumina e non riscalda di certo non è luce, ma tenebra. È così della sapienza che non rende sapiente ogni uomo. Essa è stoltezza, non sapienza, non saggezza, non intelligenza, non luce soprannaturale.
Nessuno accende una lampada e la copre con un vaso o la mette sotto un letto, ma la pone su un candelabro, perché chi entra veda la luce. Non c'è nulla di segreto che non sia manifestato, nulla di nascosto che non sia conosciuto e venga in piena luce. Fate attenzione dunque a come ascoltate; perché a chi ha, sarà dato, ma a chi non ha, sarà tolto anche ciò che crede di avere».
Il Vangelo è l'unica vera sapienza, l'unica vera luce, l'unica e sola vera intelligenza data da Dio all'uomo. Con la sapienza del Vangelo il discepolo di Gesù deve fare sapienti tutti i suoi fratelli. Come? Non nascondendo questa luce nel suo cuore o nella sua coscienza, ma facendola apparire, rendendola manifesta in ogni sua opera, decisione, atto del suo corpo. Anche le sue più piccole manifestazioni del suo corpo devono respirare saggezza e sapienza evangelica, così l'uomo potrà fare visibilmente, operativamente, storicamente, e non solo concettualmente, la differenza tra la stoltezza e la sapienza, tra le tenebre e la luce, tra la verità e la falsità.
È questa la sapienza del discepolo di Gesù: illuminare di luce evangelica tutta la storia. Togliere dalle tenebre la sua vita e mostrarla in piena luce, sempre, in ogni luogo, qualsiasi cosa faccia, dica, pensi, operi. Non c'è luogo sulla terra nel quale la sapienza non debba e non possa risplendere. Il Vangelo non è per le sacrestie, ma per le piazze, gli stadi, le scuole, i mercati, i tribunali, gli uffici, i parlamenti, le corti, le regge.
Vergine Maria, Madre della Redenzione, Angeli e Santi, dateci la vera sapienza. -
Movimento Apostolico - rito romano -

domenica 18 settembre 2011

XXV Domwenica del Tempo Ordinario

Sei invidioso perché io sono buono?

In quel tempo, Gesù disse ai suoi discepoli questa parabola:
«Il regno dei cieli è simile a un padrone di casa che uscì all’alba per prendere a giornata lavoratori per la sua vigna. Si accordò con loro per un denaro al giorno e li mandò nella sua vigna. Uscito poi verso le nove del mattino, ne vide altri che stavano in piazza, disoccupati, e disse loro: “Andate anche voi nella vigna; quello che è giusto ve lo darò”. Ed essi andarono. Uscì di nuovo verso mezzogiorno e verso le tre, e fece altrettanto. Uscito ancora verso le cinque, ne vide altri che se ne stavano lì e disse loro: “Perché ve ne state qui tutto il giorno senza far niente?”. Gli risposero: “Perché nessuno ci ha presi a giornata”. Ed egli disse loro: “Andate anche voi nella vigna”.
Quando fu sera, il padrone della vigna disse al suo fattore: “Chiama i lavoratori e dai loro la paga, incominciando dagli ultimi fino ai primi”. Venuti quelli delle cinque del pomeriggio, ricevettero ciascuno un denaro. Quando arrivarono i primi, pensarono che avrebbero ricevuto di più. Ma anch’essi ricevettero ciascuno un denaro. Nel ritirarlo, però, mormoravano contro il padrone dicendo: “Questi ultimi hanno lavorato un’ora soltanto e li hai trattati come noi, che abbiamo sopportato il peso della giornata e il caldo”.
Ma il padrone, rispondendo a uno di loro, disse: “Amico, io non ti faccio torto. Non hai forse concordato con me per un denaro? Prendi il tuo e vattene. Ma io voglio dare anche a quest’ultimo quanto a te: non posso fare delle mie cose quello che voglio? Oppure tu sei invidioso perché io sono buono?”. Così gli ultimi saranno primi e i primi, ultimi».Mt 20,1-16

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Nel vangelo di oggi si nota la bontà di Dio e l'invidia dei lavoratori. L'invidia è un sentimento da tutti considerato come cattivo; infatti ho tendenza a dire che io non sono invidioso. Però quello che mi lascia perplesso è che se da una parte dico di non essere invidioso, molto facilmente vedo l'invidia negli altri. Da qui la domanda: possibile che io sia cosi diverso dagli altri? E come mai non riesco a vedere in me ciò che cosi facilmente vedo negli altri?
Dire che sono invidioso è come dire che l'altro ha qualche cosa che io non ho; è più ricco, più bello, più intelligente, più libero, più, più, più di me, e di conseguenza io mi sento meno, meno, meno. In altre parole riconoscere che sono invidioso è come dire che sono povero ed è questo che non sopporto.
Come si manifesta? Quando faccio discorsi sulla giustizia o su qualche ingiustizia che denuncio con un'animosità non proporzionale all'argomento discusso. Quando mi scurisco in volto e divento brutto, allora posso domandarmi se sono mosso veramente dal desiderio di fare trionfare la giustizia o non piuttosto dall'invidia.
Invece è molto bello contemplare questo padrone che esce tutto il giorno per verificare se ci sono ancora persone da assumere. Visibilmente non lo fa per se; ama il suo popolo e desidera renderlo felice facendolo lavorare nella sua vigna. Nella sua logica è beato chi arriva prima, perché lavorarci significa diventare protagonisti e non più spettatori nel suo Regno, e non si lascia condizionare da chi è invidioso.
Anche oggi il Signore invita ognuno di noi a lavorare nella sua vigna. Non mi dice cosa devo fare perché chi ha voglia lo vede da se cosa c'è da fare e sa cosa è in grado di fare. L'importante è accogliere questo invito e fare. Posso leggere, scrivere, cantare, pregare, fare catechismo, visitare i malati, pulire la chiesa, aiutare il mio vicino di casa, essere caritatevole sul lavoro; in sintesi sono invitato a testimoniare in parole e opere l'amore di Dio. Il lavoro non manca mai. Siamo tutti invitati a dare il nostro contributo senza rimanere spettatori, e a ciascuno il Signore darà la sua ricompensa non in base ai suoi meriti ma in base ai suoi bisogni. - padre Paul Devreux 

 Video - commento di don Valentino Porcile

sabato 17 settembre 2011

Sabato della XXIV settimana del Tempo Ordinario

Il seme caduto sul terreno buono sono coloro che custodiscono la Parola e producono frutto con perseveranza.

In quel tempo, poiché una grande folla si radunava e accorreva a lui gente da ogni città, Gesù disse con una parabola: «Il seminatore uscì a seminare il suo seme. Mentre seminava, una parte cadde lungo la strada e fu calpestata, e gli uccelli del cielo la mangiarono. Un’altra parte cadde sulla pietra e, appena germogliata, seccò per mancanza di umidità. Un’altra parte cadde in mezzo ai rovi e i rovi, cresciuti insieme con essa, la soffocarono. Un’altra parte cadde sul terreno buono, germogliò e fruttò cento volte tanto». Detto questo, esclamò: «Chi ha orecchi per ascoltare, ascolti!».
I suoi discepoli lo interrogavano sul significato della parabola. Ed egli disse: «A voi è dato conoscere i misteri del regno di Dio, ma agli altri solo con parabole, affinché vedendo non vedano e ascoltando non comprendano.
Il significato della parabola è questo: il seme è la parola di Dio. I semi caduti lungo la strada sono coloro che l’hanno ascoltata, ma poi viene il diavolo e porta via la Parola dal loro cuore, perché non avvenga che, credendo, siano salvati. Quelli sulla pietra sono coloro che, quando ascoltano, ricevono la Parola con gioia, ma non hanno radici; credono per un certo tempo, ma nel tempo della prova vengono meno. Quello caduto in mezzo ai rovi sono coloro che, dopo aver ascoltato, strada facendo si lasciano soffocare da preoccupazioni, ricchezze e piaceri della vita e non giungono a maturazione. Quello sul terreno buono sono coloro che, dopo aver ascoltato la Parola con cuore integro e buono, la custodiscono e producono frutto con perseveranza. Lc 8,4-15

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Il buon seme del seminatore.
Chi ha visto almeno una volta il bel gesto misurato e solenne del seminatore, il suo incedere tra i solchi con passo cadenzato, l’affondare la mano nel sacco per riempirla di seme e poi cospargerlo a pioggia nel campo, può ben comprendere quanto si addìca al buon Dio quell’immagine. Egli è il seminatore della vita, il fecondatore del seme, la fonte di ogni energia… Il seme di Dio si cala nel campo dell’animo umano dove lo stesso Signore ha posto il terreno migliore e più fecondo. È da lì che poi Egli attende con paterna pazienza il germogliare del seme e poi i frutti da raccogliere. Il grande problema sta nella condizione del terreno su cui cade quel buon seme, sta nella situazione in cui si trova il nostro spirito, nella nostra capacità di accoglienza, o, ahimè, nel nostro rifiuto. Sassi, spine, strada, sono immagini eloquenti delle nostre umane situazioni, sono la misura della nostra religiosità, della nostra capacita di fare comunione con Dio mediante la Parola. Ci ricordano anche i tranelli della vita e le false valutazioni che ne facciamo dei valori. Purtroppo occorre attendere il momento del raccolto per poter valutare veramente gli effetti della cattiva preparazione del terreno; solo allora si valuta la perdita o si gode del frutto abbondante. Quanti rimpianti per le occasioni perdute! Quante amarezze per rifiuti inconsulti e stolti. Il terreno buono dove il seme feconda abbondantemente è quello spirito umile e docile che accoglie con amore la parola e la trasforma in azioni di grazie e di bontà.

venerdì 16 settembre 2011

Venerdì della XXIV Settimana del Tempo Ordinario - Santi Cornelio e Cipriano






















C’erano con lui i Dodici e alcune donne che li servivano con i loro beni.

In quel tempo, Gesù se ne andava per città e villaggi, predicando e annunciando la buona notizia del regno di Dio.
C’erano con lui i Dodici e alcune donne che erano state guarite da spiriti cattivi e da infermità: Maria, chiamata Maddalena, dalla quale erano usciti sette demòni; Giovanna, moglie di Cuza, amministratore di Erode; Susanna e molte altre, che li servivano con i loro beni. Lc 8,1-3

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Le collaboratrici di Cristo.

È di primaria importanza il ruolo che le donne svolgono nella vita di Gesù. Sappiamo tutti della Madre sua, della vergine Maria. Quello delle altre donne è meno appariscente di quello degli Apostoli e dei discepoli, ma non per questo meno incisivo. Cristo ha goduto dell’amicizia di alcune di loro come Marta e Maria, le sorelle di Lazzaro; più volte egli si ritirava nella casa di Betània con i suoi discepoli e sappiamo in quelle circostanze di tutto lo zelo di Marta e del fervore che animava Maria, assetata della Parola del Signore. A loro restituì vivo il fratello, che da tre giorni era nel sepolcro. Oggi l’evangelista Luca ne menziona altre che erano state beneficate da Gesù: «C’erano con lui i Dodici e alcune donne che erano state guarite da spiriti cattivi e da infermità: Maria di Màgdala, dalla quale erano usciti sette demòni, Giovanna, moglie di Cusa, amministratore di Erode, Susanna e molte altre, che li assistevano con i loro beni». È interessante la sottolineatura che Luca fa nel riferirci l’origine e la storia di quelle donne. Alcune di loro sicuramente sarebbero state definite donne non di buona fama e appartenenti a categorie che suscitavano il disprezzo dei giudei. Gesù ha un modo diverso di accogliere e di scegliere: egli accettando la loro preziosa collaborazione e annoverandole nella sua grande famiglia, vuole sottolineare ancora una volta che i prediletti del cuore sono i lontani che ritornano all’ovile, i peccatori e le peccatrici convertite. La storia conferma che spesso i più ardenti di amore, di gratitudine e di fervore apostolico, sono stati e sono ancora convertiti e convertite; persone che dopo aver sofferto la lontananza dal Signore, hanno poi goduto di un abbraccio di misericordia e si sono visti rivestiti di dignità nuova e ammessi dal Padre celeste al festoso banchetto nella casa paterna. È lo stile di Dio, spesso tanto diverso dalle nostre umane considerazioni. Quelle prime donne hanno poi segnato la storia sia nel testimoniare l’eroico coraggio di seguire Gesù fino al Calvario, mentre gli apostoli erano in fuga, terrorizzati dagli eventi che rischiava di coinvolgerli in prima persona, sia nella schiera innumerevole di tante e tante altre, che si sono consacrate in modo totale ed esclusivo al Signore.

giovedì 15 settembre 2011

Giovedì della XXIV Settimana del Tempo Ordinario - Beata Vergine Maria Addolorata

Ecco tuo figlio! Ecco tua madre!

In quel tempo, stavano presso la croce di Gesù sua madre, la sorella di sua madre, Maria madre di Clèopa e Maria di Màgdala.
Gesù allora, vedendo la madre e accanto a lei il discepolo che egli amava, disse alla madre: «Donna, ecco tuo figlio!». Poi disse al discepolo: «Ecco tua madre!». E da quell’ora il discepolo l’accolse con sé. Gv 19,25-27

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«Donna, ecco il tuo figlio!»
Gesù è morente sulla croce. Sta vivendo nello strazio del dolore i suoi ultimi momenti di atroce passione. Sta per dire al Padre e proclamare all’intera umanità che «Tutto è compiuto». A quel “compiuto” di amore infinito manca un ufficiale e solenne coinvolgimento della Madre sua, che è lì affranta, ai suoi piedi, a condividere lo stesso dolore, a dare, anche Lei, come aveva dichiarato all’Angelo, il pieno compimento alla promessa di adempiere fino alla fine la sua missione di Madre del Verbo: «Eccomi, sono la serva del Signore, avvenga in me secondo la tua parola». Gesù la chiama ancora «donna» perché la identifica con la nostra umanità da salvare, ma sta per dirle «Madre» perché con la sua intima e profonda partecipazione alla sua sofferenza si qualifica come la corredentrice del genere umano. E come tale la «donna» diventa «Madre» a pieno titolo: perché è la perfetta discepola, perché sta esprimendo anche Lei in pienezza la sua maternità nei confronti del Figlio, nei confronti dei figli. In quell’ecco tuo figlio, Gesù mostra se stesso alla madre e addìta tutti noi a Lei. Sta offrendo al Padre il prezzo del nostro riscatto che egli per primo ha pagato per noi, ma che racchiude anche il dono della Madre per tutti i suoi figli. Così Maria, la Madre, entra ufficialmente nella «casa». Non è soltanto la casa del discepolo ad accoglierla, ma la Chiesa tutta diventa la casa di Maria. La sua maternità diventa universale e così Lei entra nel nostro mondo e allo stesso tempo assume il suo ruolo, quello di essere la genitrice di tutti i figli che vogliono conformarsi a Cristo. Oggi Egli, guardando ancora con infinito amore la Madre sua, ripete a tutti noi, alla sua Chiesa, a tutti i sofferenti, alle mamme affrante come lei per la perdita dei propri figli,: «Ecco la tua madre!». Pare voglia ripetere a tutti: il dolore offerto per amore ormai è soltanto motivo di redenzione e di salvezza perché non conduce più alla morte, ma al riscatto, alla risurrezione, alla vita nuova in Cristo. - Monaci Benedettini Silvestrini -

mercoledì 14 settembre 2011

Mercoledì della XV settimana del Tempo Ordinario - Esaltazione della Santa Croce

Bisogna che sia innalzato il Figlio dell’uomo.

In quel tempo, Gesù disse a Nicodèmo:
«Nessuno è mai salito al cielo, se non colui che è disceso dal cielo, il Figlio dell’uomo. E come Mosè innalzò il serpente nel deserto, così bisogna che sia innalzato il Figlio dell’uomo, perché chiunque crede in lui abbia la vita eterna.
Dio infatti ha tanto amato il mondo da dare il Figlio unigenito, perché chiunque crede in lui non vada perduto, ma abbia la vita eterna.
Dio, infatti, non ha mandato il Figlio nel mondo per condannare il mondo, ma perché il mondo sia salvato per mezzo di lui». Gv 3,13-17

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Obbediente fino alla morte di croce.
L’ignominia della croce, l’esservi inchiodati, era riservato agli schiavi e ai condannati per le peggiori malefatte. Da sempre l’uomo in quel segno ha visto la morte peggiore e non solo per il tipo di tortura che comportava, ma ancor più per l’umiliazione che infliggeva. Significava essere esposti al pubblico ludibrio e alla peggiore umiliazione. Oggi noi cristiani celebriamo la croce e la sua esaltazione: celebriamo quel legno perché da strumento di morte è stato reso da Cristo segno visibile di vittoria. L’uomo Dio sì è stato anch’Egli legato e crocifisso, ma quando dopo tre giorni, si è definitivamente sganciato da quella croce, ha liberato se stesso e tutti noi dai vincoli della schiavitù e della morte. «Gesù ha vinto la morte e ha fatto risplendere la vita e l’immortalità», dice San Paolo. Lo stesso Gesù aveva preannunciato: «Quando sarò innalzato sulla croce attirerò tutti a me». Questi sono i motivi della nostra festa, per questo noi guardiamo la croce sì per ricordare l’amore che è stato profuso per noi su quel legno, ma ancor più per magnificare il Signore per la sua e nostra risurrezione. Così è radicalmente cambiata la nostra vita, la vita del mondo: le croci che sempre e comunque ci affliggono e crocifiggono non sono più solo dolore e sconfitta per noi, ma solo passaggio verso una vita nuova. Il dolore senza motivo genera solo disperazione o al più passiva rassegnazione, da quando Cristo ha illuminato di vita la sua croce, noi sappiamo quali finalità sublimi possiamo dare alle nostre più assurde vicende: le condividiamo con Lui per rinascere con lui a vita nuova. Così quella croce è ormai definitivamente piantata nel cuore e nella vita di ognuno di noi, ma ormai è diventato albero di vita, da cui sgorga energia divina e grazia che santifica. Ai piedi di un albero era iniziata la nostra tragica storia di peccato, da un albero crociato e rinverdito dall’amore di Cristo, obbediente ed immolato per noi, riprende vita la nostra rinascita. Cristo si schioda dalla croce e noi siamo liberati da tutte le nostre schiavitù. Abbiamo ragione di fare festa oggi e di segnarci ogni giorno con il segno della croce per ricordare la tragedia del peccato e il trionfo dell’amore. Dovremmo ripetere il gesto devoto di gratitudine che compiamo il Venerdì Santo quando adoriamo la croce di Cristo e imprimiamo su di essa l’impronta del nostro amore.









Per distruggere la maledizione di Ad

martedì 13 settembre 2011

Martedì della XXIV Settimana del Tempo Ordinario - San Giovanni Crisostomo

Ragazzo, dico a te, alzati!

In quel tempo, Gesù si recò in una città chiamata Nain, e con lui camminavano i suoi discepoli e una grande folla.
Quando fu vicino alla porta della città, ecco, veniva portato alla tomba un morto, unico figlio di una madre rimasta vedova; e molta gente della città era con lei.
Vedendola, il Signore fu preso da grande compassione per lei e le disse: «Non piangere!». Si avvicinò e toccò la bara, mentre i portatori si fermarono. Poi disse: «Ragazzo, dico a te, àlzati!». Il morto si mise seduto e cominciò a parlare. Ed egli lo restituì a sua madre.
Tutti furono presi da timore e glorificavano Dio, dicendo: «Un grande profeta è sorto tra noi», e: «Dio ha visitato il suo popolo». Questa fama di lui si diffuse per tutta quanta la Giudea e in tutta la regione circostante. Lc 7,11-17

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Le lacrime di una madre.
«Le mie lacrime nell’otre tuo raccogli, Signore». A Nàin c’è un funerale: la morte ha colpito un giovinetto, figlio unico di madre vedeva. Le sue lacrime, pianti e lamenti corali accompagnano il feretro. Gesù si trova su quella stessa strada, seguito da molta folla; ode quel pianto e anch’egli si associa a quel triste corteo, anch’egli è sulla via della morte, sono tutti mortali e stanno percorrendo una valle di lacrime quelli che lo seguono. Egli però vuole dare forza ed evidenza alla sua missione di salvezza e alle sue parole. Dirà dopo la sua risurrezione: «Io ho vinto la morte». Lo dirà per scandire che egli è risorto, ma anche per dire che anche noi siamo destinati alla vita. Emerge quindi solenne, maestosa ed efficace la parola del Signore rivolta al ragazzo che giace esanime nel feretro: «Giovinetto, dico a te, àlzati!». «Ed egli lo diede alla madre». L’effetto del miracolo non è solo la gioia della madre, che può riavere vivo il proprio figlio, ma soprattutto una grande proclamazione di fede da parte di tutti i seguaci di Gesù: «Un grande profeta è sorto tra noi e Dio ha visitato il suo popolo». Definendo Gesù profeta si afferma che egli parla in nome di Dio e proclama quindi verità eterne. Dicendo che Dio ha visitato il suo popolo si dichiara nella fede che la potenza salvifica dell’Onnipotente è concretamente intervenuta nella storia e negli eventi del mondo. Com’è urgente in questi giorni che Dio venga a visitarci, quante lacrime ci sono da asciugare, quanti vivi e morti vengono portati al sepolcro…!  Monaci Benedettni Silvestrini

Santi e Beati del giorno 13 settembre 2011

San Giovanni Crisostomo
Antiochia c. 349 Comana sul Mar Nero 14 settembre 407

Crisostomo fu annunziatore fedele della parola di Dio, come presbitero ad Antiochia (386-397) e come vescovo a Costantinopoli (397-404). Qui si dedicò all'evangelizzazione e alla catechesi, all'opera liturgica, caritativa e missionaria. L'anafora eucaristica da lui rielaborata in forma definitiva sull'antico schema antiocheno è ancor oggi la più diffusa in tutto l'Oriente. La sua predicazione nel campo morale e sociale gli procurò dure opposizioni e infine l'esilio (404-407), dove morì. Nella sua opera di maestro e dottore ha rilievo il commento alle Scritture, specialmente alle lettere paoline, e il suo contributo alla dottrina eucaristica.
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San MARCELLINO Martire
sec. V
Fu un alto funzionario imperiale, amico di S. Agostino, cristiano esemplareetpietate notissimus”. Per conto dell’imperatore Onorio presiedette la conferenza di Cartagine tr...
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San MAURILIO DI ANGERS Vescovo
Milano, seconda metà IV secolo - Angers (Francia) 13 settembre 453
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Sant' AMATO DI REMIREMONT Abate
Nasce a Grenoble tra il 565 e il 570 da Eliodoro, nobile romano. Entrò nel monastero di Agauno, nel Vallese, nel 581 e fu ordinato sacerdote e vi rimase per 30 anni per poi ritirar...
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Sant' AMATO DI SENS (O DI SION) Vescovo
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San BERNARDO Pellegrino
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Sant' EVANZIO DI AUTUN Vescovo
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San VENERIO Eremita
560 c. - 630
Nacque intorno al 560 e fu un monaco eremita nel monastero un tempo esistente sull'isola del Tino, isola dell'arcipelago spezzino di cui fanno parte anche l'isolotto del Tinetto e ...
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San GIULIANO Martire
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DEDICAZIONE DELLE BASILICHE DI GERUSALEMME
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San LITORIO DI TOURS Vescovo
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Sant' EMILIANO DI VALENCE Vescovo
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Beata MARIA DI GESù (LOPEZ DE RIVAS) Religiosa
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Beato CLAUDIO DUMONET Martire
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Beato AURELIO MARIA (BENVENUTO) VILLALON ACEBRON Martire
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lunedì 12 settembre 2011

Lunedì della XXIV Settimana del Tempo Ordinario - Santissimo NOME DI MARIA

Neanche in Israele ho trovato una fede così grande.

In quel tempo, Gesù, quando ebbe terminato di rivolgere tutte le sue parole al popolo che stava in ascolto, entrò in Cafàrnao.
Il servo di un centurione era ammalato e stava per morire. Il centurione l’aveva molto caro. Perciò, avendo udito parlare di Gesù, gli mandò alcuni anziani dei Giudei a pregarlo di venire e di salvare il suo servo. Costoro, giunti da Gesù, lo supplicavano con insistenza: «Egli merita che tu gli conceda quello che chiede – dicevano –, perché ama il nostro popolo ed è stato lui a costruirci la sinagoga».
Gesù si incamminò con loro. Non era ormai molto distante dalla casa, quando il centurione mandò alcuni amici a dirgli: «Signore, non disturbarti! Io non sono degno che tu entri sotto il mio tetto; per questo io stesso non mi sono ritenuto degno di venire da te; ma di’ una parola e il mio servo sarà guarito. Anch’io infatti sono nella condizione di subalterno e ho dei soldati sotto di me e dico a uno: “Va’!”, ed egli va; e a un altro: “Vieni!”, ed egli viene; e al mio servo: “Fa’ questo!”, ed egli lo fa».
All’udire questo, Gesù lo ammirò e, volgendosi alla folla che lo seguiva, disse: «Io vi dico che neanche in Israele ho trovato una fede così grande!». E gli inviati, quando tornarono a casa, trovarono il servo guarito. Lc 7,1-10

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Uno straniero diventa maestro di fede e di preghiera.

L’implorare dall’Alto, il chiedere aiuto a chi è più potente di noi quando costatiamo la nostra impotenza dinanzi alle difficoltà della vita è un fatto spontaneo, ma non significa con ciò che abbiamo ancora imparato l’arte sublime della preghiera. Il centurione del Vangelo di oggi è mosso da un affetto verso un suo servo che è in pericolo di vita. È raro che i padroni amino i servi e si preoccupino della loro vita. I rimedi umani hanno esaurito le proprie risorse, il servo sta per morire, egli però ha sentito parlare di Gesù, evidentemente è venuto a conoscenza della forza di salvezza che emana dal Signore, ne ha percepito la grandezza dato che egli si sente indegno di riceverlo sotto il suo tetto e perfino di comparire alla sua presenza. E’ animato però da una grande fiducia e da una profonda umiltà. Egli afferma senza ombra di dubbio che basta che Gesù pronunci una sua parola e il suo servo sarà guarito. Gesù non pronuncia parole o formule di guarigione, tesse soltanto un grande elogio della fede del centurione: «neanche in Israele ho trovato una fede così grande!» Il miracolo però è già avvenuto. Lo costatano gli inviati al loro ritorno. Per pregare bene dobbiamo quindi essere animati dall’amore verso Dio e verso il prossimo, dobbiamo riconoscere umilmente la nostra estrema povertà, dobbiamo soprattutto nutrire una fede profonda nella potenza di Dio e nella sua volontà di liberarci da ogni male.

domenica 11 settembre 2011

XXIV Domenica del Tempo Ordinario

 Non ti dico fino a sette volte, ma fino a settanta volte sette.

In quel tempo, Pietro si avvicinò a Gesù e gli disse: «Signore, se il mio fratello commette colpe contro di me, quante volte dovrò perdonargli? Fino a sette volte?». E Gesù gli rispose: «Non ti dico fino a sette volte, ma fino a settanta volte sette.
Per questo, il regno dei cieli è simile a un re che volle regolare i conti con i suoi servi. Aveva cominciato a regolare i conti, quando gli fu presentato un tale che gli doveva diecimila talenti. Poiché costui non era in grado di restituire, il padrone ordinò che fosse venduto lui con la moglie, i figli e quanto possedeva, e così saldasse il debito. Allora il servo, prostrato a terra, lo supplicava dicendo: “Abbi pazienza con me e ti restituirò ogni cosa”. Il padrone ebbe compassione di quel servo, lo lasciò andare e gli condonò il debito.
Appena uscito, quel servo trovò uno dei suoi compagni, che gli doveva cento denari. Lo prese per il collo e lo soffocava, dicendo: “Restituisci quello che devi!”. Il suo compagno, prostrato a terra, lo pregava dicendo: “Abbi pazienza con me e ti restituirò”. Ma egli non volle, andò e lo fece gettare in prigione, fino a che non avesse pagato il debito.
Visto quello che accadeva, i suoi compagni furono molto dispiaciuti e andarono a riferire al loro padrone tutto l’accaduto. Allora il padrone fece chiamare quell’uomo e gli disse: “Servo malvagio, io ti ho condonato tutto quel debito perché tu mi hai pregato. Non dovevi anche tu aver pietà del tuo compagno, così come io ho avuto pietà di te?”. Sdegnato, il padrone lo diede in mano agli aguzzini, finché non avesse restituito tutto il dovuto.
Così anche il Padre mio celeste farà con voi se non perdonerete di cuore, ciascuno al proprio fratello».Mt 18,21-35

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L'atteggiamento del servo di questa parabola scandalizza, eppure, se Gesù la racconta, significa che riscontra questo tipo d'atteggiamento intorno a sè e quindi forse anche in me. Di fatto oggi Gesù insiste sull'importanza del perdono, come domenica scorsa.
Pietro domanda: se qualcuno fa del male a me personalmente, quante volte devo perdonare? E Pietro pensa di essere molto generoso proponendo di perdonare fino a sette volte perché le scuole rabbiniche di allora dicevano di perdonare fino a 4 volte. Gesù però, come al solito lo spiazza dicendogli che deve perdonare all'infinito, sempre, e per spiegare il motivo di ciò racconta una parabola.
Parla di un re che vuole fare i conti con i suoi servi; possiamo paragonarlo ad un momento di bilancio della vita di ognuno di noi o al momento del giudizio finale. Un servo arriva con un debito stratosferico pari oggi a circa 5 o 6 miliardi di Euro. E' come dire una cifra impagabile, come è il dono della nostra vita e della vita di chi si è sacrificato per noi. Il re dapprima esige un rimborso domandando al suo suddito praticamente la sua vita e tutto quello che ha, ma vedendolo pregare e sapendo benissimo che comunque non potrà mai rimborsare un debito cosi grosso anche se promette di farlo, si impietosisce, ha compassione e gli condona tutto il debito. Praticamente il suo condono è l'equivalente di un dono tale che ridona una nuova volta a quest'uomo la vita. Ma questo è come dire che torna nuovamente come prima ad essere debitore a questo re della sua vita che gli ridona.
So che mi ripeto ma lo faccio di proposito perché è importante rendersi conto che la vita non è mia, che non è una cosa che mi sono guadagnato o che ho meritato; è un dono incalcolabile che ho ricevuto e che noi cristiani diciamo ricevuto da Dio. Se io mi rendo conto di questo, mi sento anche desiderato e amato e nasce in me automaticamente il desiderio di manifestare gratitudine. Il modo più semplice per farlo è quello di essere anche io misericordioso con chi ha un debito nei miei confronti.
Questo servo che si vede condonato tutto il suo debito, e poi prende per il cravattino chi a con lui un piccolo debito, rispetto a quello che gli è stato appena condonato, è un cieco, un sordo, uno che non vuole sentire, perché ormai si è arroccato sulle sue idee, per cui considera che gli altri sono cattivi e ingiusti, mentre lui è la vittima, costretto ad implorare il perdono al suo re per colpa degli altri. Non riesce a vedere le sue colpe; non vede il male che fa', vede solo quello che subisce, e questo lo chiude alla gratitudine, al vedere il dono ricevuto; pensa che anche quello se lo è sudato e meritato umiliandosi, pensa che è stato bravo a chiedere, furbo.
Peccato, peccato in tutti i sensi, perché un uomo così vive e vivrà sempre un inferno, anche se è in paradiso.
Perdonare di cuore è possibile se il mio cuore si apre alla gratitudine. Ecco perché è importante seguire Gesù; per scoprire quanto grande è l'amore di Dio nei nostri confronti. Per arrivare alla libertà di riconoscere quanto ci ama e cosi poter amare anche noi per inerzia. (omelia di padre Paul Devreux)

sabato 10 settembre 2011

Sabato della XXIII settimana del Tempo Ordinario

 Perché mi invocate: Signore, Signore! e non fate quello che dico?
In quel tempo, Gesù disse ai suoi discepoli:
«Non vi è albero buono che produca un frutto cattivo, né vi è d’altronde albero cattivo che produca un frutto buono. Ogni albero infatti si riconosce dal suo frutto: non si raccolgono fichi dagli spini, né si vendemmia uva da un rovo.
L’uomo buono dal buon tesoro del suo cuore trae fuori il bene; l’uomo cattivo dal suo cattivo tesoro trae fuori il male: la sua bocca infatti esprime ciò che dal cuore sovrabbonda.
Perché mi invocate: “Signore, Signore!” e non fate quello che dico?
Chiunque viene a me e ascolta le mie parole e le mette in pratica, vi mostrerò a chi è simile: è simile a un uomo che, costruendo una casa, ha scavato molto profondo e ha posto le fondamenta sulla roccia. Venuta la piena, il fiume investì quella casa, ma non riuscì a smuoverla perché era costruita bene.
Chi invece ascolta e non mette in pratica, è simile a un uomo che ha costruito una casa sulla terra, senza fondamenta. Il fiume la investì e subito crollò; e la distruzione di quella casa fu grande».

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L’uomo, l’albero e il frutto.

L’uomo buono trae fuori il bene dal buon tesoro del suo cuore. Il bene del nostro cuore sono i frutti che noi produciamo. L’albero buono, infatti si riconosce dai suoi frutti. Così anche l’uomo si riconosce dalle sue opere. Uno che non fa ciò che il Signore ha detto di fare si può chiamare Cristiano? Sul marciapiede giaceva un giovane, è passato uno che chiamavano medico, era medico? Nella stanza a fianco da un’ora sta piangendo un bimbo, quella che sta guardando la telenovèla è forse sua madre? In un convento ogni frate va per conto suo, colui che dice di essere guardiano lo è davvero? Le parole valgono poco. Non contano nemmeno le invocazioni al Signore, se non sono accompagnate dal compimento della sua volontà. Occorre l’ascolto e la pratica. Diversamente la vita diventa precaria, senza fondamenti. A parole o con le intenzioni siamo tutti cristiani perfetti. Proviamo ad esserlo anche con i fatti.

Padri Benedettini Silvestrini

venerdì 9 settembre 2011

Venerdì della XXIII Settimana del Tempo Ordinario - San Gregorio Magno

 Può forse un cieco guidare un altro cieco?
In quel tempo, Gesù disse ai suoi discepoli una parabola:
«Può forse un cieco guidare un altro cieco? Non cadranno tutti e due in un fosso? Un discepolo non è più del maestro; ma ognuno, che sia ben preparato, sarà come il suo maestro.
Perché guardi la pagliuzza che è nell’occhio del tuo fratello e non ti accorgi della trave che è nel tuo occhio? Come puoi dire al tuo fratello: “Fratello, lascia che tolga la pagliuzza che è nel tuo occhio”, mentre tu stesso non vedi la trave che è nel tuo occhio? Ipocrita! Togli prima la trave dal tuo occhio e allora ci vedrai bene per togliere la pagliuzza dall’occhio del tuo fratello». Lc 6,39-42


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La pagliuzza e la trave.

«Può forse un cieco guidare un altro cieco? Non cadranno tutt’e due in una buca?» Gesù era circondato da falsi maestri, sempre pronti a giudicare e condannare gli altri e incapaci di esaminare se stessi. Egli li stigmatizza con una serie di invettive, scatenando la loro indignazione, che culminerà con le false accuse e l’assurda sentenza di morte. Alla radice delle loro falsità c’era la presunzione, l’atteggiarsi ipocritamente a maestri e guide senza averne le doti. Dice loro esplicitamente «ciechi e guide di ciechi». Gesù ammonisce anche i suoi: «voi non fatevi chiamare «rabbì», perché uno solo è il vostro maestro e voi siete tutti fratelli». Anche il miglior discepolo del miglior maestro deve ornarsi di umiltà e mai deve ergersi a giudice degli altri. «Perché guardi la pagliuzza che è nell’occhio del tuo fratello, e non t’accorgi della trave che è nel tuo?» Ecco cosa accade quando presumiamo di poter essere giudici degli altri senza averci prima esaminato attentamente sui nostri comportamenti. C’è una facile ed insidiosa convinzione in noi quando crediamo che scoprendo e smascherando gli altri difetti, ammantiamo e sminuiamo i nostri. Questa subdola insidia ci spinge a giudicare gli altri e a puntare lo sguardo indagatore e il dito accusatore verso gli altri e non verso noi stessi. Ci capita quando ci siamo disabituati a fare un attento esame di coscienza che ci indurrebbe a vedere prima la trave nel nostro occhio e poi la pagliuzza nell’occhio del nostro fratello. Gesù definisce tale atteggiamento come una forma di ipocrisia: «Ipocrita, togli prima la trave dal tuo occhio e allora potrai vederci bene nel togliere la pagliuzza dall’occhio del tuo fratello». Attenzione allora agli inquinamenti della nostra vista. Abbiamo il dovere di purificare il nostro occhio affinché possa vedere nella pienezza della luce che lo stesso Signore ci dona e procedere prima, nella verità e nella carità, alla nostra personale correzione e poi a quelle dei nostri fratelli.

Monaci Benedettini Silvestrini


giovedì 8 settembre 2011

Giovedì della XXIII Settimana del Tempo Ordinario


Così fu generato Gesù Cristo: sua madre Maria, essendo promessa sposa di Giuseppe, prima che andassero a vivere insieme si trovò incinta per opera dello Spirito Santo. Giuseppe suo sposo, poiché era uomo giusto e non voleva accusarla pubblicamente, pensò di ripudiarla in segreto.
Mentre però stava considerando queste cose, ecco, gli apparve in sogno un angelo del Signore e gli disse: «Giuseppe, figlio di Davide, non temere di prendere con te Maria, tua sposa. Infatti il bambino che è generato in lei viene dallo Spirito Santo; ella darà alla luce un figlio e tu lo chiamerai Gesù: egli infatti salverà il suo popolo dai suoi peccati».
Tutto questo è avvenuto perché si compisse ciò che era stato detto dal Signore per mezzo del profeta: «Ecco, la vergine concepirà e darà alla luce un figlio: a lui sarà dato il nome di Emmanuele», che significa Dio con noi. (Forma breve Mt 1,18-23)
 
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Da te è nato il Sole di giustizia, Cristo Dio nostro.

Alla data della nostra nascita siamo soliti scambiarci gli auguri di buon compleanno. Dovremmo oggi farlo nei confronti della nostra Madre celeste, celebriamo infatti la sua natività. I Vangeli non parlano di questo lieto evento né ci rivelano i nomi dei genitori della Vergine; ci li rivelano invece i vangeli apocrifi. Per noi però la festa di oggi più che celebrare una data o una semplice ricorrenza, vuole ricordarci che la futura Madre del Signore è stata concepita senza ombra di peccato, preservata dal peccato originale, che tutti ci ha coinvolti. Vuole ancora dirci che è lei la donna che schiaccerà il capo al serpente, preannunciata sin dal principio, e ancora che quella fanciulla, nata da Gioacchino ed Anna, sarà poi la prescelta da Dio per diventare la Madre di Cristo. Maria viene così in modo prodigioso innestata nel mistero della redenzione di tutto il genere umano. In questa luce noi vediamo e celebriamo le feste della Vergine Maria. La nascita della fanciulla di Nazaret diventa quindi “la pienezza dei tempi”, quando cioè i disegni di Dio trovano il loro compimento nella storia e i diversi protagonisti assumono i compiti previsti e preannunciati dallo stesso Signore. Così gli eventi umani si legano indissolubilmente ai disegni divini, così anche noi dovremmo impostare e vivere le nostra storia quotidiana per farla diventare storia sacra, la storia del Dio con noi. Potremmo così realizzare l’ideale principale della nostra esistenza quello di fare del nostro tempo, dei nostri eventi, una celebrazione di salvezza, un approdo alla meta finale, dove vivremo senza tempo, nell’eternità di Dio. Ci sgorghi una preghiera particolare in questo giorno: chiediamo alla Beata Vergine una particolare protezione per tutti coloro che si affacciano alla vita in questo giorno, per tutti i bimbi e le bimbe del mondo, spessi minacciati dalle cattiverie degli adulti.

Commento dei Monaci Benedettini Silvestrini

mercoledì 7 settembre 2011

Mercoledì della XXIII settimana del Tempo Ordinario

Beati i poveri. Guai a voi, ricchi.
In quel tempo, Gesù, alzàti gli occhi verso i suoi discepoli, diceva:
«Beati voi, poveri,
perché vostro è il regno di Dio.
Beati voi, che ora avete fame,
perché sarete saziati.
Beati voi, che ora piangete,
perché riderete.
Beati voi, quando gli uomini vi odieranno e quando vi metteranno al bando e vi insulteranno e disprezzeranno il vostro nome come infame, a causa del Figlio dell’uomo. Rallegratevi in quel giorno ed esultate perché, ecco, la vostra ricompensa è grande nel cielo. Allo stesso modo infatti agivano i loro padri con i profeti.

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Le Beatitudini ci giungono dai Vangeli in due forme: quella contenuta nel vangelo secondo Matteo (5,4-12) e queste del vangelo di Luca. La differenza non è solo nel fatto che qui i macarismi (beati) sono composti parallelamente a quattro maledizioni(guai); sta pure nel fatto che nella possibilità di essere poveri o ricchi, affamati o sazi, nel pianto e nel riso sono sempre gli stessi discepoli.Gesù dice sempre: voi. Ci farebbe comodo, probabilmente, fare due liste per distinguere gli altri da noi. Invece non è così. C’è modo e modo di essere discepoli di Gesù. Insieme con i veri, possono esserci pure i falsi discepoli del Signore.
Analogamente a come in Israele ci sono stati anche i falsi profeti. Questa prospettiva ci domanda di considerare le scelte che ciascuno di noi compie nell’intimo del suo cuore. Modello per il vero discepolo del Signore sarà la Vergine Maria. Nel suo Magnificat Ella ha già intuito la divisione che la spada della Parola opera nei cuori. Iddio,infatti, innalza i poveri, riempie di beni gli affamati e rimanda a mani vuote i ricchi. Quest’opera di Dio, accolta a mani e cuore aperti, è fonte di permanente beatitudine.
Ma guai a voi, ricchi, perché avete già ricevuto la vostra consolazione.
Guai a voi, che ora siete sazi, perché avrete fame. Guai a voi, che ora ridete, perché sarete nel dolore e piangerete. Guai, quando tutti gli uomini diranno bene di voi. Allo stesso modo infatti agivano i loro padri con i falsi profeti».

dal Giornale "A Sua Immagine"

martedì 6 settembre 2011

Martedì della XXIII Settimana del Tempo Ordinario

 Passò tutta la notte pregando e scelse dodici ai quali diede anche il nome di apostoli.

In quei giorni, Gesù se ne andò sul monte a pregare e passò tutta la notte pregando Dio. Quando fu giorno, chiamò a sé i suoi discepoli e ne scelse dodici, ai quali diede anche il nome di apostoli: Simone, al quale diede anche il nome di Pietro; Andrea, suo fratello; Giacomo, Giovanni, Filippo, Bartolomeo, Matteo, Tommaso; Giacomo, figlio di Alfeo; Simone, detto Zelota; Giuda, figlio di Giacomo; e Giuda Iscariota, che divenne il traditore.
Disceso con loro, si fermò in un luogo pianeggiante. C’era gran folla di suoi discepoli e gran moltitudine di gente da tutta la Giudea, da Gerusalemme e dal litorale di Tiro e di Sidòne, che erano venuti per ascoltarlo ed essere guariti dalle loro malattie; anche quelli che erano tormentati da spiriti impuri venivano guariti. Tutta la folla cercava di toccarlo, perché da lui usciva una forza che guariva tutti. Lc 6,12-19

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Una notte trascorsa interamentein preghiera prelude a un momento davvero importante.
È la terza volta che l’evangelista San Luca mostra Gesù in preghiera: dopo il suo battesimo al Giordano, al termine di una giornata ricca di apostolato e, ora, prima di procedere a una chiamata. I Dodici, che sono il nucleo originario della Chiesa, sono il frutto di una scelta da parte del Signore. Al popolo di Dio non si appartiene più per nascita, o per razza, ma per risposta a una vocazione, per adesione personale. «Cristiani si diventa, non si nasce», è la famosa espressione di Tertulliano. La chiamata è rivolta a dodici persone, che d’ora in avanti formano un’unità non più basata sul sangue, ma sulla risposta a una chiamata per nome. Ciascuno dei Dodici ha una sua identità. Di qualcuno è sottolineata la famiglia e la storia, di un altro il carattere personale; di Giuda, persino la scelta che un giorno farà. Chi forma la Chiesa non è un’élite; si tratta, piuttosto, di persone soggette a cadere e che perciò quotidianamente debbono rinnovare la propria adesione a Gesù. «Quando fu giorno…». Ogni vocazione è mattutina. Non è mai accolta una volta per sempre. Le si risponde a ogni spuntar del giorno.
dal Giornale "A Sua Immagine"